di Elena Bagalà
18 Settembre 2012
A metà di luglio 2012, la stampa internazionale, quella italiana compresa, ha annunciato la presenza di una epidemia di colera a Cuba. In pochi giorni sono stati scritti decine di articoli su questo argomento creando panico tra i turisti presenti sull’isola ed i loro parenti rimasti a casa; non in pochi, di fatti, hanno deciso di rinunciare alle vacanze ed abbandonare l’isola. Già, ma c’è stato anche chi, come me, ha deciso di rimanere, consapevole dei rischi, e ora che sono tornata in Italia “sana e salva” voglio condividere la narrazione della mia esperienza.
Mi trovavo all’Habana già da un mese e ho saputo della presenza del colera grazie ad un messaggio sul cellulare che la mia famiglia mi ha mandato dall’Italia, era il 9 luglio. Qualche giorno prima in effetti avevo sentito una signora parlare di colera, ma pensando di aver capito male non me ne ero preoccupata…
Il giorno successivo decido di recarmi in ambasciata italiana per avere maggiori informazioni e valutare la situazione. In ambasciata ho trovato altri italiani che volevano avere notizie sul colera e ciò che ci hanno detto è stato che il focolaio dell’infezione era nella provincia di Granma, ad oriente, a circa 900 chilometri dall’Habana. In quella regione erano stati scoperti dei pozzi infetti ed erano confermati casi di contagio tra gli abitanti della zona, tuttavia non vi erano notizie di una diffusione al di fuori di quell’area e quindi noi all’Habana non avevamo motivo di preoccuparci. In ogni caso ci è stato consigliato di bere l’acqua in bottiglia e di evitare di bere o mangiare in luoghi poco controllati, insomma, dovevamo comunque stare attenti.
Io, a differenza degli altri italiani che alloggiavano in hotel, stavo vivendo in una casa con una famiglia cubana, conducendo la vita quotidiana con loro e lontana dai luoghi e dai circuiti turistici.
Nel giro di pochi giorni anche i canali di informazione ufficiali cubani hanno iniziato a diffondere notizie sulla presenza del colera nel paese e a consigliare misure precauzionali; è comparso un articolo informativo sul quotidiano Granma, organo ufficiale del Partito Comunista Cubano, in cui veniva confermata la presenza del colera nella provincia di Granma e specificava che tra i casi di contagio si era verificata la morte di tre persone adulte. Per televisione invece, sui canali nazionali sono stati diffusi consigli e semplici norme da seguire, come bere sempre acqua bollita ed evitare di consumare per la strada bevande o cibi a rischio. Contemporaneamente arrivavano anche notizie dai canali statunitensi, soprattutto da Miami, a cui molti cubani riescono a collegarsi “illegalmente” (non è permesso avere parabole, di fatto in molti però riescono a collegarsi) e che stavano diffondendo notizie un po’ più allarmanti, anche in quel caso si parlava di epidemia ed il numero delle persone morte a causa del colera secondo queste fonti era addirittura di 30.
Da queste poche righe è facile comprendere come le stesse notizie siano influenzate da interessi superiori, dai rapporti politici e dagli scontri ideologici, in definitiva da tutta una serie di questioni che hanno poca attinenza con i meri “fatti”, ma noi antropologi siamo abituati a pensare che i “fatti” in se stessi non esistano, ma esistano solamente interpretazioni differenti circa i medesimi eventi. Di conseguenza non mi sono stupita di queste discrepanze e ho cercato di trovare un mio equilibrio, senza farmi prendere dal panico, ma cosciente di non poter sottovalutare la questione.
Nella mia percezione il colera faceva parte delle malattie sconfitte, di cui si legge nei romanzi o nei libri di storia, di conseguenza la sua presenza nella mia quotidianità ha fatto nascere dentro di me sensazioni contrastanti. Da un lato avvertivo timore e preoccupazione, ma dall’altro mi sono sentita trasportare in un’altra dimensione, come se fossi stata proiettata all’interno del famoso romanzo di Gabriel García Márquez El amor en los tiempos del cólera. Una splendida storia d’amore, questa, segnata dal dolore struggente per la distanza, reale e metaforica, tra due amanti; distanza causata dalle loro scelte, ma anche da eventi dipendenti dal fato e che non possono essere controllati; ed io, allo stesso modo, stavo vivendo in una terra che mi ha fatto innamorare di sé, ma che mi spingeva ad allontanarmi e di cui mi sentivo spaventata. Tutto ha cominciato ad avere un altro sapore e la vita ha iniziato a scorrere ad un’altra velocità, più lentamente.
Abbiamo dovuto modificare molte azioni automatiche della vita quotidiana, bollire l’acqua, sia da bere sia per lavare i denti, calcolarne i tempi di raffreddamento ed avere la pazienza di colarla prima di passarla nelle bottiglie per eliminare i residui di calcare. Abbiamo iniziato a fare attenzione ad asciugare bene tutte le stoviglie e lavare frutta e verdura con acqua bollita ed appositamente accumulata in casa. Prima di uscire di casa non potevamo scordarci di mettere una bottiglia d’acqua in borsa perché con il gran caldo e l’elevata umidità di questo paese tropicale è essenziale avere sempre da bere e non potendo più fare affidamento sui venditori ambulanti di bevande non avevamo altra scelta. Non è stato facile abituarsi a rinunciare al “refresco” (bevanda fresca e al sapore di frutta), al succo di frutta venduto dalle cafeterías (case a piano terra di cubani in possesso della licenza per vendere cibi e bevande) sulla strada o ricordarsi di non mangiare il gelato del Coppelia (famosa gelateria dell’Habana).
Durante il mese che ho trascorso all’Habana convivendo con la presenza del colera ho spesso desiderato di tornare a casa per sentirmi finalmente al sicuro, tuttavia ho anche pensato che questa esperienza mi avrebbe dato la possibilità, in un futuro, di raccontare delle mie “avventure” ammantate da una atmosfera romantica ed unica.
Le ultime informazioni di cui sono venuta in possesso una volta tornata in Italia sono abbastanza rassicuranti, sempre attraverso l’ambasciata italiana a Cuba ho saputo che attualmente non ci sono notizie di espansione dell’infezione ed il problema quindi sembra stia rientrando.
Elena Bagalà