El Mal de Chagas in un paraje Qom. Analisi sociale, politica e culturale della malattia
Chiara Carraro *
* Il presente saggio è stato scritto a partire da un lavoro di ricerca di tesi dal titolo Discorsi sul mal de Chagas. Interpretazioni della malattia tra cultura, storia e politica” (Università degli Studi di Torino, 2015) che ho svolto in Chaco dal mese di giungo al mese di settembre 2014, grazie all’appoggio dell’associazione Antropocosmos.
Breve introduzione al tema
“Aqui todos los Qom tienen Mal de Chagas, mis hijos y yo también puede ser que estamos enfermos”[1] mi spiegava Ersilia, una signora Qom di 40 anni circa, madre di 5 figli che mi ospitava in casa sua; “no hay cura para el Chagas, la gente de Chagas muere. Al principio uno no se da cuenta, pero despacito te cansa el cuerpo, luego te agarra el corazón y de repente te mata”[2] commentava suo marito Carlos. “Pero usted no, los blancos no tienen Chagas”.[3]
Queste sono state le prime ambigue frasi annotate sul taccuino, appena iniziato il lavoro di campo, che vorrei nella presente trattazione decostruire e chiarificare. La ricerca che vi fa da sfondo è stata svolta nel paraje El Algarrobal, una piccola comunità di indigeni Qom situata nella provincia del Chaco argentino. Il villaggio indigeno, detto localmente paraje, dove ho vissuto durante la ricerca, era isolato, distante chilometri dai centri abitati maggiori, per raggiungerlo era necessario percorrere un groviglio di strade sterrate all’interno di un territorio chiamato Impenetrabile, la cui scarna vegetazione era costituita prevalentemente da arbusti bassi e spinosi[4].
All’interno della comunità indigena le opinioni che circolavano riguardo al Chagas erano molte, spesso confuse e tra loro al quanto discordanti; tutti i Qom avevano familiarità con il Chagas, la maggior parte di loro mi diceva senza reticenze di esserne affetta, alcuni sostenevano che non ci fosse una cura reale per i chagasici, mentre altri sapevano di un farmaco disponibile, ma costoso e difficile da reperire nei pochi ospedali presenti nella zona. Opinione singolare, ma assai diffusa, era che il Chagas fosse una malattia prettamente indigena, “un mal del los Qom”[5] dicevano, un destino ineluttabile verso il quale gli indigeni si dovevano rassegnare.
Da quando Carlos Chagas scoprì nel lontano 1919 il Tripanosoma Cruzi, batterio responsabile della trasmissione del morbo, si è scritto molto su questa malattia tuttora presente in molte aree del continente Sud Americano; alle ricerche bio-mediche sul Chagas si sono aggiunte quelle sociali, grazie alle quali è stato evidenziato che complesse problematiche di tipo ambientale, sociale e politico sono collegate all’infermità e sono spesso le cause della sua ingente propagazione. Il Chagas viene infatti spesso definito “mal de los pobres y de la pobreza”[6], più diffuso laddove c’è indigenza, dove le condizioni abitative e igieniche sono precarie, dove la popolazione non ha accesso ai servizi e alle strutture sanitarie basiche.
L’OMS definisce il Mal de Chagas una negleted desease,[7] malattia dimenticata che però colpisce dagli 8 ai 10 milioni di persone soprattutto in America Latina e che negli ultimi tempi sta riapparendo per esempio nel Chaco argentino e in Bolivia, zone dove i recenti tentativi di debellare il morbo avevano avuto positivi esiti (OMS, 2015).
Spesso si pensa che il Chagas affetti esclusivamente le popolazioni che abitano le zone latinoamericane più povere e isolate, specialmente quelle rurali e indigene, tuttavia a causa dei nuovi flussi migratori, lo spauracchio del Chagas si sta diffondendo anche nelle grandi capitali di Latino America, Nord America e Europa; casi di malati di Chagas sono stati riscontrati anche in Italia, prevalentemente tra gli immigrati peruviani e boliviani che risiedono nel paese (Cinnameo, 2014).
La presenza di chagasici nel continente europeo, ha dato un rinnovato impulso alla ricerca medica e sociale sul Chagas; quest’ultima connettendo la patologia alle migrazioni umane e ai suoi mutamenti sociali, propone approcci inediti per la comprensione delle dimensioni socio-culturali della malattia, che potrebbero aiutare a meglio gestirne la diffusione.
Grazie alle interviste raccolte a El Algarrobal è stata confermata l’alta presenza del Chagas tra la popolazione indigena,[8] ma è risultato altrettanto lampante che i Qom avessero opinioni da un lato confuse riguardo le caratteristiche biologiche della malattia (sintomatologia, diagnosi, terapia, modalità di contagio), dall’altro molto difformi tra loro riguardo i suoi significati sociali; la poca chiarezza sul Chagas, sintomatica dell’intrinseca complessità del tema, ha dato un impulso forte alla ricerca, che, in questa sede, non mira solo ad approfondire alcune delicate questioni bio-mediche della patologia ma, adottando un approccio più semiotico, si concentra su quelle simboliche e sociali.
Nel tentativo di chiarificare alcune opinioni che ad El Algarrobal circolavano sul Chagas, è stato utile approfondire alcune questioni sociali, economiche e politiche che influenzano in generale la produzione del sapere medico e in particolare in Chaco quello sul Chagas; nel far ciò ci si è discostati da una visione della malattia apolitica e astorica, che definirebbe il Chagas un mero evento biologico, che semplicemente capita e contro cui nulla si può se non fare ricorso alla bio-medicina. Aprire lo studio della malattia all’analisi del contesto socio-politico in cui viene sia vissuta che interpretata, ha permesso di crescere una visione più complessa e meno parziale della questione e ha suggerito risposte inedite ad alcuni grandi interrogativi sul Chagas.
Nello sviluppo della ricerca è stato metodologicamente utile spostare il fuoco da un punto di vista locale ad uno globale, per rintracciare i legami esistenti tra i due; a questo riguardo la domanda locale di cura dei Qom e l’effettiva risposta che questa può ricevere, dipende da precise scelte politiche compiute sia a livello nazionale che internazionale, spazi decisionali questi in cui determinati fini bio-politici, incentivano la mobilitazione -o meno- di capitali e risorse per sconfiggere il Chagas.
In questo caso, il Chagas, come altre negleted deseases, è rimasto agli ultimi posti nelle agende dei politici, non ha attirato né interessi mediatici né l’attenzione delle grandi case farmaceutiche mondiali, così è stato sorpassato da altre patologie la cui eradicazione è stata considerata più urgente e forse anche più lucrosa.
Considerare il sapere bio-medico come un paradigma scientifico prodotto in un determinato luogo e tempo storico (Kuhn, 1962), spinge ad affermare che le stesse definizioni date alle patologie cambiano nel tempo e per precise finalità politiche; in base all’etichetta di malattie dimenticate o emergenti che viene attribuita loro e all’interesse che queste ricevono in precisi momenti storici, vengono mobilitati esigui o ingenti capitali da investire nella ricerca bio-medica, per esempio, nella produzione e nell’approvvigionamento di farmaci, strutture e strumenti per sconfiggerle.
L’intrecciarsi di questi discorsi attorno al Chagas, ha permesso di evidenziare che vi sono complessi motivi politici, sociali ed economici, che fanno sì che il Chagas, in questo momento storico e per lungo tempo, sia stato definito una negleted desease, motivazioni che sono la causa della volontà politica di estromettere alcune popolazioni dal mercato della cura.
Seguendo le linee teoriche dell’antropologia medica critico-interpretativa, nel corso della mia ricerca ho analizzato criticamente la bio-medicina occidentale, che ha a lungo slegato il corpo dalla simbologia sul corpo prodotta in un determinato contesto sociale.
Nella presente trattazione si propongono alcune riflessioni riguardo le interpretazioni che i Qom di El Algarrobal e alcuni medici intervistati, danno sia circa il Chagas come malattia, sia circa il soggetto indigeno chagas-positivo, evidenziando l’uso strumentale delle interpretazioni stesse. Da un lato è emerso che i pochi medici che visitavano la comunità guardassero al Chagas con superficialità, riproducendo nei loro discorsi pericolosi stereotipi che fomentavano atteggiamenti discriminatori nei confronti dei pazienti indigeni chagasici. Dall’altro il fatto che il Chagas venisse definito un male indigeno incurabile lo trasformava in un pesante stigma negativo per i Qom, che erano disincentivati dal ricercarne una cura, ma che mettevano in moto strategie di agency per trarre dallo stigma alcuni vantaggi.
Uno degli obiettivi del presente lavoro è quello di restituire al lettore uno sguardo complesso e sfaccettato sulla malattia del Chagas, sui diversi significati che questa assume nel contesto specifico dov’è avvenuta la ricerca, sull’uso strumentale che di questa viene fatto, sia in un piano locale, che in uno globale e sulle ricadute pratiche che seguono ai discorsi significativi sul Chagas. Ampia parte della trattazione verrà riservata all’analisi delle conseguenze che gli stereotipi sul Chagas portano nella pratica di cura, all’interno della relazione medico bianco-paziente indigeno.
Seguendo questo percorso la malattia non sarà più percepita come un ambito di esclusiva competenza bio-medica, ma sarà considerata un discorso significativo sul corpo formulato in specifici contesti, conteso tra diversi attori politici e sociali per il raggiungimento di determinati fini.
1. Malinterpretare il Chagas: ricadute pratiche su diagnosi e cura
L’infettivologo brasiliano C. Chagas (1879-1934), agli inizi del novecento, venne inviato dall’Instituto Bacteriológico Oswaldo Cruz di Rio de Janeiro, a Lassance, nel Minas Gerais (Brasile), per fronteggiare un’epidemia di malaria che affliggeva un accampamento di operai impegnati nella costruzione di una linea ferroviaria. Durante la permanenza nella carrozza di un treno, che diventò il suo laboratorio, Chagas scoprì la presenza del Trypanosoma Cruzi[9] nelle feci dell’insetto Triatoma Infestans, responsabile della trasmissione della malattia tra gli animali e l’uomo; fu in questa situazione che egli diede una prima descrizione del quadro clinico di quella che venne chiamata malattia di Chagas o Tripanosomiasi americana.
Ciò che primariamente attirò l’attenzione dell’infettivologo fu la massiccia presenza del Triatoma Infestans nelle crepe dei muri delle abitazioni del luogo: l’insetto di giorno restava nascosto ma, appena calava la luce, usciva dai nascondigli per nutrirsi di sangue, pungendo sia uomini che animali.
Il parassita Trypanosoma Cruzi si trasmette primariamente attraverso il contatto diretto con le feci infette della cimice emofaga, in Argentina chiamata Vinchuca: il contagio avviene quando il Triatoma, mentre compie il suo pasto ematico, defeca vicino alla zona dove ha succhiato il sangue, favorendo così l’ingresso delle feci infette nell’apparato circolatorio del soggetto. Spesso i raschiamenti cutanei causati dal prurito della puntura, facilitano l’ingresso delle feci del Triatoma nell’organismo, causando l’infezione.
Riguardo all’esistenza di efficaci strumenti diagnostici e terapeutici, molti sono stati gli interrogativi sollevati durante la mia ricerca che vanno al di là delle questioni meramente mediche; la complessità del tema si incrementa a causa della confusione presente all’interno del mondo della ricerca scientifica, medica e sociale, aggravata dalla compresenza di quei fattori politici, ambientali e sociali che, connessi al Chagas, ne rendono complessa la comprensione e l’eradicazione (Kreimer 2010, 2006).
Il Chagas è una patologia sintomatologicamente silente, i cui effetti visibili sull’organismo si possono manifestare anche 10-15 anni dopo l’avvenuto contagio. Nel lungo periodo asintomatico di latenza, se non ci si sottopone a controlli assidui, il Chagas si diffonde incontrastato e diventa una patologia cronica, difficile da debellare con i farmaci attualmente in circolazione .
La specificità asintomatica e silente del morbo[10] ha ricadute negative sul piano diagnostico: il fatto che la patologia non abbia una sintomatologia specifica e riconoscibile, porta da una parte i pazienti e gli operatori sanitari a non considerare i sintomi, quando presenti, rilevanti o attribuibili all’infezione di Chagas, dall’altra spesso si verifica che alcuni pazienti si sentono tutti i sintomi del Chagas, temendo di essere affetti dalla malattia, anche quando non presente (Ciannameo, 2015).
Se i sintomi del Chagas acuto non vengono riconosciuti in tempo, la sua diagnosi precoce viene ritardata o non avviene del tutto, compromettendo un’azione terapeutica tempestiva, efficace e risolutiva per il malato che diverrà cronico.
La possibilità che un paziente chagasico, ormai cronico, possa eliminare il Trypanosoma è quasi nulla. Studi dimostrano che il decorso della malattia può essere rallentato grazie alla somministrazione dei farmaci appositi e i decessi dei malati allo stadio cronico possono essere ridotti qualora il paziente possa usufruire di un assistenza medico-sanitaria adeguata e costante, che intervenga all’insorgere di complicazioni patologiche degli organi compromessi dall’avanzata del parassita, soprattutto lo stomaco, l’intestino e il cuore (Guerri-Guttenberg, Di Girolamo, Ciannameo, Milei, 2009).
A differenza della fase cronica, quella acuta, in cui si registra il livello massimo di parassitemia nel corpo, può avere una sintomatologia manifesta (febbre, linfonodo gonfi) e qualora la malattia venga diagnosticata in tempo, può essere efficacemente curata con gli appositi farmaci, arrivando al 90% di possibilità che il Tripanosoma Cruzi venga definitivamente eliminato.
Essere a conoscenza del fatto che il Chagas presenti una fase acuta e una fase cronica e sapere che nella fase acuta la cura può essere somministrata e ha buone possibilità di essere risolutiva, è importante per non credere erroneamente che il Chagas sia una patologia incurabile e cronica nel suo intero ciclo di sviluppo. A El Algarrobal non ci sono ospedali o centri di assistenza sanitaria e nel paraje indigeno non sono presenti medici di formazione occidentale; la maggior parte dei Qom faceva ricorso sia a tecniche di cura tradizionali e all’opinione dei pochi curanderos[11] presenti nella zona, che ai farmaci classici che si facevano prescrivere in abbondanza quando avevano l’occasione di incontrare qualche medico di passaggio nell’Impenetrabile.
Un ragazzo della comunità raccontava che nell’anno 2013 avevano ricevuto alcune visite dell’organizzazione internazionale Medici Senza Frontiere, i quali pianificarono alcuni incontri di formazione su tematiche relative alla salute, all’igiene, ai metodi anticoncezionali e anche sul Chagas; le esigue conoscenze scientifiche, per altro approssimative, che i Qom avevano sul Chagas erano il risultato di quegli incontri.
I pochi medici che frettolosamente transitavano nel paraje di El Algarrobal per monitorare le condizioni di salute della comunità, li considero più simili a dei tecnici che non a dei medici veri e propri, più impegnati a distribuire il maggior numero possibile di farmaci basici (antidolorifici e antiinfiammatori) che non a fornire alla popolazione informazioni accurate sulla prevenzione, sulla diagnosi, cura e sintomatologia di alcune malattie molto diffuse e mortali nella zona tra cui la tubercolosi, insufficienze e calcoli renali, malattie trasmesse sessualmente e il Chagas.
Nella quasi totalità delle interviste semi-strutturate sul Chagas che sono state somministrate a questi stessi medici e nei numerosi incontri che mi hanno concesso, è stata riscontrata l’evidenza che, sia nelle interviste, che nei momenti di discussione informale, il personale medico avesse dato a me e ai molti pazienti Qom, alcuni dei quali miei informatori, una lunga serie di definizioni superficiali, stereotipate e scientificamente errate della malattia del Chagas.
“Il Chagas è una patologia incurabile, colpisce maggiormente i Qom e quelli che hanno il parassita se lo tengono per tutta la loro vita, senza poterlo debellare definitivamente”, “la maggior parte dei Qom muore di Chagas perché non vogliono curarsi. Non sanno nulla della malattia e dei farmaci che devono prendere e anche quando iniziano la terapia non la portano mai a termine”. Dichiarano due medici che ho intervistato di cui scelgo di non riportare i nomi. “Qui tutti i medici dicono che di Chagas si muore e che non esiste una cura. Lo chiamano il male dei Qom” mi spiega Ercilia.
Le affermazioni ambigue e approssimative che i medici utilizzavano per definire la patologia, circolavano sia all’interno degli ospedali, sia fuori da essi e per la maggiore ribadivano l’idea tanto diffusa quanto erronea, che il Chagas fosse una malattia incurabile, di natura cronica e prettamente indigena. Durante i mesi di ricerca sovente sono stata testimone di asserzioni simili a quelle appena riportate, opinioni evidentemente ambigue sulla patologia, poco scientifiche nonostante venissero espresse da medici, che nascondono un elevato grado di opacità e scarsa chiarezza concettuale e terminologica.
L’opacità simbolica sul Chagas, non è stata considerata né un fatto casuale né tanto meno innocuo, al contrario dietro al “non detto” situo la precisa volontà di alcuni medici di individuare destinatari che, forse, “non devono sapere”, che è meglio non abbiano conoscenze scientifiche precise sulla patologia. Può sembrare un paradosso che il personale medico, generalmente ritenuto detentore di autorevolezza e portavoce della verità scientifica, faccia circolare mezze verità su alcune infermità. Tuttavia riguardo al Chagas, la scelta di dichiarare che non vi siano cure disponibili per i chagasici, il fatto che il Chagas venga definito un male indigeno e cronico, porta alla luce in forma velata i temi del dominio e dell’egemonia culturale tra una classe sociale dominante, quella dei medici bianchi e una che viene marginalizzata, quella dei chagasici indigeni.
In Chaco nella relazione sbilanciata tra pazienti indigeni e medici bianchi gioca un ruolo determinate anche il concetto di razza; Quinjano (2000) afferma che la produzione della categoria di razza rispetto a determinate caratteristiche fenotipiche (colore della pelle, forma del naso ecc), sia relativamente recente e abbia preso piede dalla scoperta dell’America in poi. Il colore della pelle è il marchio razziale differenziale più significativo, anche perchè più visibile di altri e proprio sul colore della pelle venne costruita l’idea di una classe europea bianca egemonica e una classe indigena scura di pelle subordinata. In linea con le argomentazioni dell’autore, si sostiene che la razzializzazione della classi sociali sia una strategia politica funzionale alla riproduzione di un determinato ordine del mondo in cui il il bianco occupa una posizione egemonica, mentre coloro che hanno gradazioni di colore più scure occupano posizioni inferiori.
Bourdieu sottolinea che le classi sociali egemoni, per esercitare la loro supremazia, detengono una forma di potere che l’autore definisce simbolico, attraverso il quale esse possono agire nel mondo agendo sulle rappresentazioni del mondo stesso e ribadire determinati rapporti di forza stabilendo le relazioni di senso tra cose e idee (Bourdieu, 1998). Questa forma di violenza simbolica “dolce, quasi invisibile”, insieme alle classificazioni razziali sulla base del colore della pelle, si diramano all’interno dei luoghi adibiti alla cura e nelle relazioni tra medici e pazienti, nonostante si pensi esse siano scevre da differenziazioni sociali e rapporti di potere.
Il fatto che il Chagas venga definito dai medici incurabile, senza rendere chiara la differenza tra fase acuta (curabile) e fase cronica (incurabile), che non venga esplicitato che la terapia somministrata nella fase acuta può essere risolutiva, sono opinioni erronee largamente disconfermate dalla ricerca scientifica sulla malattia. Opinioni che però influenzano notevolmente la percezione che i Qom hanno del Chagas e alle quali seguono pesanti ricadute pratiche: “Si no hay remedio al Chagas ni medicamento, porque tengo que hacerme el diagnóstico?” afferma Casilda, donna Qom di 40 anni di Miraflores, a conferma di quando appena riportato. Di fronte ad un male “incurabile per natura”, i pazienti indigeni vengono disincentivati dal richiedere la diagnosi precoce del Chagas al manifestarsi dei primi sintomi, qualora vengano correttamente riconosciuti, e difficilmente scelgono di intraprendere il percorso di cura, che per altro è molto lungo e costoso.
Le malinterpretazioni sul Chagas che sono emerse nella quasi interezza delle interviste raccolte, portano ad affermare che nell’ambito della cura medica il potere trova inedite modalità d’espressione e in nome del presunto diritto universale alla cura, esprime giudizi morali e opera per differenze culturali e razziali.
Questo è più evidente in una società non egualitaria e razzista nei confronti della popolazione Qom, com’è quella chaqueña, dove spesso i medici bianchi non vogliono prendersi cura dell’Altro indigeno perchè lo considerano essi stessi primitivo, credulone, rozzo, rendendolo oggetto di un disprezzo appena mascherato dal paternalismo della retorica medica. Come ben afferma Beneduce (2011) “non è possibile curare un Altro a cui è negata l’umanità stessa”.
Per concludere questa prima parte è bene ricordare che l’infermità non è incurabile in tutte le sue fasi, ma diviene incurabile e cronica qualora non venga precocemente diagnosticata e scrupolosamente curata con i farmaci adeguati e definire il Chagas un male indigeno significa affermare che solo gli indigeni possono contrarlo, cosa ampiamente disconfermata dagli alti numeri di contagi presenti in Chaco anche tra coloro che non si considerano indigeni.
Non possiamo dimenticare che ad El Algarrobal la violenza simbolica si unisce a quella strutturale che si abbatte su alcune comunità indigene argentine più di altre; oltre alle discriminazioni razziali nei confronti della popolazione Qom, l’assenza di strutture sanitarie e ospedaliere in grado di rispondere alle esigenze dei chagasici, l’effettiva povertà e scarsità di mezzi, l’essere comunità isolate, acuisce la difficoltà per i Qom ad accedere alle cure mediche. Mi pare che non sia eccessivo affermare che forse il Chagas venga dai medici definito incurabile perché incurabile, emarginata, indigente è proprio quella fetta di popolazione indigena che, per ragioni sociali, etniche e politiche, non merita di essere curata.
2. Il Chagas: un fatto di cultura
A El Algarrobal quasi tutti i Qom dicono di avere in Mal di Chagas, è raro trovare famiglie indigene dove nessun componente sia positivo al morbo.
Nel periodo in cui vivevo nella comunità, Agustina, una giovane ragazza Qom di 20 anni, è risultata negativa al test del Chagas e ricordo di aver incrociato il suo sguardo nel momento il cui il medico le diede l’esito delle analisi. Mi stupì molto che quando le comunicarono che non era chagasica, il suo volto si rabbuiò; Agustina non sembrava sollevata dal fatto di non essere positiva al Chagas.
Durante le conversazioni con i miei informatori Qom, mi capitò spesso di notare che le stesse madri di famiglia non si mostravano minimamente preoccupate del fatto che tutti i loro figli -alcuni di pochi anni- avessero il Mal di Chagas; quando chiedevo loro esplicitamente se temevano la malattia, molte alzavano le spalle, sorridevano e mi davano risposte vaghe:“Por qué tengo que tener miedo del Mal de Chagas?”[12] rispondevano molte donne indigene, canzonandomi e mettendomi a volte in imbarazzo per aver posto la domanda.
Le loro risposte mi misero dinnanzi ad un’evidenza: l’interesse ad approfondire alcune questioni sul Mal di Chagas non era condiviso dai miei interlocutori, i quali nonostante mi dicessero di essere malati cronici e mi parlassero delle gravi negligenze dei medici, non sentivano l’urgenza di interrogarsi a fondo riguardo i significati e le cause dell’endemia.
Come si evince da ciò che anteriormente è stato riportato, sembrava che i miei informatori non avessero un sapere medico-scientifico preciso riguardo al Chagas: spesso quando chiedevo delucidazioni sui modi di trasmissione dell’infezione, sulla sua sintomatologia o sulla cura, mi venivano fornite risposte vaghe e poco chiare. Tutti sapevano dell’esistenza del morbo, tutti sapevano che il più delle volte era mortale e bastava il suo statuto di realtà perché venisse considerato un male innegabilmente presente nelle vita del singolo e della comunità Qom, ma non per questo troppo ingombrante e temibile.
Fin da subito mi sono interrogata sull’eterogeneità degli sguardi sulla malattia di Chagas, la quale, per me, in quanto tale esigeva approfondimenti, sollevava interrogativi, ma soprattutto richiedeva un’urgente risposta di cura da parte del sapere bio-medico; per i Qom invece non era un fatto così preoccupante da richiedere l’urgenza diagnostica e terapeutica. Consapevole della complessità delle interpretazioni che si possono dare sul Chagas, penso alla malattia come un oggetto antropologicamente scomodo, che non si presta a definizioni univoche e semplicistiche, come ad un evento sia biologico che sociale di difficile comprensione perché viene investito di molteplici significati. L’evidenza che i miei interlocutori non comprendessero lo sguardo che io avevo nei confronti della malattia ed evidenziassero una visione differente della stessa, mi portò a analizzare quest’ultima come un ambito denso e stratificato,[13] sollecitandomi a leggere il fenomeno secondo piani molteplici.
Quando mi riferisco alla malattia in generale, la considero pur sempre come un episodio peculiare, forte, un’incursione veemente della natura nella vita dei soggetti, la quale viene alterata nel suo scorrere quotidiano. La malattia, causa di dolore e sofferenza nel corpo è un momento in cui qualche equilibrio si guasta e il soggetto malato ha la percezione che la stabile armonia del proprio corpo possa sgretolarsi da un momento all’altro (Good cit. in Quaranta, 2006). L’alterazione degli equilibri biologici dovuta all’intrusione nel corpo di un agente esterno -il Trypanosoma Cruzi ad esempio- evidenza il fatto che, quando si contrae un’infermità, viene percepita la presenza di un elemento disturbante, che prima non c’era.
Si afferma in questa sede però che il modo in cui i Qom di Miraflores considerano l’infermità di Chagas si discosti dall’interpretazione data poc’anzi della malattia. Nelle interviste raccolte in Chaco, nessun interlocutore Qom ha posto in risalto l’elemento naturale, disturbante e patogeno del morbo, mentre sono emersi sovente interessanti aspetti “culturali” sul Chagas. In questo senso è come se la malattia venisse de-naturalizzata, spogliata dei suoi caratteri biologici e medici e considerata prevalentemente parte di un ambito socio-culturale.
Il fatto che la maggior parte dei miei interlocutori non abbia mai definito il Chagas come un evento biologico dirompente nel corpo, mi porta a compararlo al significato che, della malattia, dà Marc Augè; essa è “allo stesso tempo il più individuale e il più sociale degli eventi, un avvenimento biologico la cui interpretazione è immediatamente sociale” (Augè, 1986, p. 37, corsivo mio). Il Mal di Chagas è ciò che, come la nascita, la vita e la morte è direttamente imbrigliato nei discorsi simbolici che su di esso vengono articolati dalla popolazione del paraje; proprio a causa del forte legame tra l’infermità e la sua dimensione culturale, si ritiene che esso connoti l’esistenza dei Qom che viene risignificata anche in base al fatto di essere chagasici. Se non hai il Mal di Chagas non sei Qom. Questo è l’esito paradossale e ambiguo che incatena saldamente la patologia alla cultura che la vive e che porta, in questo caso, l’afflizione ad essere considerata non più come un evento biologico definito, ma come una malattia “culturale” dai confini sfumati, che accompagna i Qom nel corso della loro vita. È quasi inevitabile che un Qom contragga il Chagas e che di Chagas possa morire; a questo proposito trascrivo due battute di un lunga chiacchierata con Casilda.
Casilda: Quasi tutti i Qom a Miraflores hanno il Mal di Chagas. Anche i miei figli ce l’hanno.
Mio marito no, perché lui è bianco, Santo [così si chiama il marito] non è Qom, lui è criollo come te!
Io: Tu hai il Mal di Chagas perché sei Qom e Santo non c’è l’ha perché è criollo?
Casilda: [sorride] Sí, solo i Qom hanno il mal di Chagas.
Nelle brevi battute riportate si esplicita chiaramente il nesso profondo e ambiguo che lega il Mal di Chagas alle comunità Qom che sono la culla dell’endemia; è come dire che l’indigeno Qom del Chaco è un soggetto che ha già in sé i germi del Chagas ancora prima del contagio, proprio perché indigeno, mentre i bianchi hanno molte meno probabilità di essere contagiati dal parassita.
Molti Qom intervistati non avevano mai fatto le analisi del sangue per rintracciare il Trypanosoma e non intendevano farle, dando per scontato che gli indigeni fossero chagasici; l’essere Qom era condizione necessaria e sufficiente per avere il Mal di Chagas e l’essere Qom non richiedeva un diagnostico che lo confermasse.
Definire il Chagas una malattia incurabile propriamente indigena, sindrome negletta e della povertà, nasconde però svariati rischi interpretativi e acuisce il diffondersi di un’idea stereotipata della patologia: il Chagas da mero fatto di natura -legato all’ingresso di un parassita nel corpo che ne uscirà-, si tramuta in un fatto di cultura che permane con essa. In questo senso il Chagas tra i Qom cambia la sua connotazione e da esperienza di malattia transeunte e passibile di terapia, diventa un male culturale incurabile e cronico, anche se la terapia esiste.
3. Il Chagas. Etichetta sociale, stereotipo coloniale, strumento di agency
Avere il Chagas ad El Algarrobal significa esplicitare umili origini, lasciar intendere che si proviene da povertà e indigenza, che si è indigeni. Se da un lato, a ragione, la povertà in cui versano le popolazioni indigene è una delle cause che aumenta il rischio di contagio, dall’altro quest’immagine monolitica e stereotipata del Qom povero e chagasico deve essere decostruita. Nella trattazione è emerso il fatto il Chagas venga sovrapposto alla cultura Qom da parte dei Qom stessi, come se fosse una sua aggettivazione, arrivando a coincidere con la cultura stessa; la patologia in questo senso assume la funzione di caratterizzare l’identità indigena Qom che con essa si identifica.
É necessario interrogarci sulle cause che motivano questa forte identificazione che porta il Chagas, ma anche altre afflizioni,[14] a definire rigidamente determinate identità e gruppi umani e non altri, contribuendo a macchiarli di uno stigma negativo e degradante. E’ importante chiedersi quindi quale sia l’origine di questi potenti discorsi medici che propongono un immagine stereotipata sia della patologia, che della popolazione Qom.
Una prima considerazione utile per rispondere a questi interrogativi verte sul riconoscimento dell’importanza dell’evento della colonizzazione per la configurazione della società odierna in generale, tanto nelle ex-colonie quanto nei paesi ex-colonizzatori e del Chaco indigeno in particolare. Senza inoltrarci nella descrizione storico-politica di ciò che accadde in America Latina con dell’arrivo degli europei, affermiamo però che la colonizzazione ebbe pesanti effetti sulle civiltà colonizzate a livello politico, economico e socio-culturale. Occorre partire da queste vicende storiche per riflettere su alcune problematiche dell’epoca odierna, sulla globalizzazione e sui nuovi imperialismi economici e culturali, che oggi ripropongono meccanismi di dominio di stampo coloniale.
Questo tipo di approccio permette di far luce su importanti questioni relative alla situazione attuale delle popolazioni Qom argentine: la marginalizzazione di questi gruppi indigeni ha radici storiche lontane che risalgono alla dominazione coloniale, ma i cui effetti perdurano fino ai tempi nostri a causa della pesante eredità lasciata dal colonialismo sia negli immaginari che nei corpi di alcune popolazioni. Oltre agli abusi agiti nei confronti delle popolazioni indigene durante il periodo coloniale, secondo la Segato (2007) l’avvento dello stato-nazione in Argentina può essere considerato un altro triste momento storico in cui venne creato un modello di unità nazionale discriminante e escludente alcuni gruppi sociali rispetto ad altri; nel periodo della costruzione nazionale un elite bianca e ideologicamente eurocentrica, ha imposto un modello di unità etnica nazionale fittizia e omogenea volto all’eradicazione della molteplicità culturale indigena presente nel paese.
In questo senso si può affermare che il colonialismo in Argentina non è mai effettivamente terminato ma è mutato, passando dalla forma classica di dominio in un’altra, che viene efficacemente definito colonialità (Quinjano 2000, Segato 2007,Burman, 2009). La colonialità è un concetto ripreso da molti pensatori contemporanei latinoamericani utile per intendere il legame che unisce mondo coloniale e post-coloniale, due momenti storici che sono tappe fluide di un processo egemonico non ancora concluso.
Pare evidente che la violenza efferata ed esplicita esercitata ai tempi della colonizzazione che causò la decimazione della popolazione indigena latinoamericana, si manifesti attualmente anche in una violenza simbolica che si insinua all’interno di giudizi morali, valutazioni diagnostiche, stereotipi e che abbiamo visto essere presente anche all’interno dei luoghi e delle relazioni adibiti alle cure mediche; la memoria della colonizzazione e dei rapporti di dominio tra coloni e colonizzati, i crimini attuati dallo stato argentino anche in epoca contemporanea contro le popolazioni indigene, nutrono le rappresentazioni contemporanee che circolano sulla malattia del Chagas e riattivano un’intenzionalità discriminatoria nei confronti dei Qom che si rende visibile nell’insieme di tecniche e saperi sulla cura.
Alcune riflessioni che propone Bhabha (2001) ci sono d’aiuto per evidenziare le strategie ideologiche messe in atto nelle colonie per caratterizzare, fissare e assoggettare l’identità del colonizzato, che posso essere rintracciate anche ai nostri giorni. La stereotipizzazione, per esempio, è uno strumento utile a costruire l’identità dell’Altro subalterno:
lo stereotipo non è una semplificazione, perché è una falsa rappresentazione di una realtà data; è una semplificazione perché è una forma fissa, bloccata, di rappresentazione che, negando il gioco della differenza, costituisce un problema per la rappresentazione del soggetto in significazioni di relazioni psichiche e sociali (Bhabha, 2001, p. 110).
Attraverso lo stereotipo si crea una rappresentazione fissa e omogenea di una realtà, lo stereotipo è una rigida etichetta imposta ad un’alterità culturale utile a legittimare una forma di colonialismo simbolico che ambisce a giustificare l’inferiorizzazione di alcuni gruppi umani ma, attraverso questi discorsi egemonici, legittima la sua supremazia simbolica e circoscrive il suo dominio.
Quando viene creata un’alterità subalterna stereotipata, è necessario continuare a ridefinire il suo carattere di subalternità nel tempo perché non perda forza ed efficacia; questa è la motivazione alla base dell’evidenza che adoperare continuamente determinati stereotipi sui Qom, ha influito sulla percezione comune che questi fossero una realtà culturale sempre più differente da quella del gruppo dominante e allo stesso tempo dalle caratteristiche razziali perfettamente conoscibili e visibili.
Ciò che con gli stereotipi viene nutrito è l’immaginario della popolazione interamente costituita da tipi umani eterogenei tra loro e l’idea che quella indigena sia composta da tipi umani razzialmente degenerati, che devono essere controllati e amministrati; “ovunque vada” scrive Fanon “il negro resta un negro” (Fanon, 1952, p. 103-114), “la sua razza diviene segno inestirpabile di differenza negativa (…) e ciò perché lo stereotipo impedisce il movimento e lo sviluppo del significante della razza” (Bhabha, 2001, p. 110).
Il concetto gramsciano di egemonia aiuta a far luce su altri aspetti della questione: in particolare quello di egemonia culturale (Gramsci, 1948-1951) chiarifica che la classe sociale egemone può esercitare varie forme di dominio culturale, intellettuale e morale sulle classi subalterne, con il fine di imporre la propria visione del mondo, i propri valori e le proprie norme.
Fin dalla colonizzazione in Argentina è stato definito l’indigeno come un tipo umano diverso e barbaro rispetto alle classi europee che detenevano il potere; l’identità dell’Altro è stata rinchiusa e fissata nel tempo entro spazi angusti e nel Chaco odierno per i Qom è arrivata a coincidere con un patologia, utile anch’essa a ribadire la differenza tra la popolazione bianca e quella indigena chagasica.
Se sia nel periodo della conquista che in quello della costruzione dello stato nazione, in Argentina si parlava dei Qom come di indigeni scuri, arretrati e degenerati negli usi e costumi, ora si parla del Qom anche nell’ottica di malato cronico di Chagas. La malattia persegue una finalità politica subdola e le classi egemoniche, dagli anni del positivismo in poi, scelgono il discorso medico e le sue definizioni di malattia e salute, per raggiungere precisi scopi di gestione politica della popolazione. La medicina, in un senso foucaultiano, è l’ambito privilegiato nel quale si espletano le finalità del potere -inteso come bio-potere-, che può dire l’ultima parola su questioni mediche relative alla vita-bios della sua popolazione; in questo senso il controllo delle condizioni della vita umana diventa un affare prettamente politico.
L’immagine stereotipata degli indigeni Qom come gruppi umani malati, dove maggiormente si diffonde la temuta patologia del Chagas, è utile al bio-potere per ribadire ideologicamente i confini di tipi umani esclusi, estromessi, considerati non abbastanza degni -in quanto indigeni e malati- di spartire il potere e la decisionalità politica con le classi egemoni.
La critica al bio-potere non può ridursi all’individuare una forza subdola che si abbatte su gruppi umani passivi e inermi: come affermano I. Adam e H. Tiffin, il post-coloniale va concepito come un insieme di pratiche discorsive di resistenza alle ideologie colonialiste e alle loro forme contemporanee di dominio e di assoggettamento (Adam, Tiffin, 1990); innumerevoli sono le forme di resistenza, di mimetismo, di appropriazione degli immaginari coloniali, che le culture subalterne mettono in atto esprimendo con simboli e corpi forme di indocilità al potere dominante (Beneduce, 2010).
In Chaco la dichiarazione medica di cronicità del Chagas viene spesso adoperata “strategicamente” dai Qom per ottenere scopi che non sono immediatamente legati alla richiesta di cura della malattia e ciò può essere visto come un atto espressione di agency dei soggetti; qualora un chagasico riesca a farsi certificare da un medico la cronicità della patologia e quindi la sua incurabilità, potrà utilizzare la dichiarazione medica ottenuta per chiedere una piccola pensione mensile allo stato per invalidità.
É importante ricordare che il Chagas ha un lungo periodo di latenza asintomatico che può durare anche 10-15 anni, in cui il chagasico potrebbe continuare a svolgere le normali attività lavorative quotidiane senza che queste vengano ostacolate dal decorso della patologia che è silente e invisibile; ad El Algarrobal però è stato rilevato che la maggior parte dei chagasici, giovani e in buona forma fisica, abbiano lasciato il lavoro per vivere solo degli aiuti monetari statali.
Nel paraje gli esigui introiti riscossi dai chagasici, permettono la sopravvivenza di quelle famiglie dove nessun soggetto lavorava; nei casi di nuclei famigliari molto poveri in cui tutti i membri avrebbero potuto essere positivi al Chagas, si scatenava una vera e propria lotta intrapresa dalle madri per ottenere la certificazione officiale di chagasico per tutti i figli, quindi per avere un numero più elevato di pensioni mensili.
Se da un lato si sta affermando che i chagasici usano il Chagas per ribadire una loro agentività funzionale a perseguire determinati fini, dall’altro accenno ad alcune enigmatiche conseguenze che a ciò seguono; a mio avviso attraverso il meccanismo di concessioni monetarie elargite ai chagasici si esplicita una forma di assistenzialismo statale strategico funzionale a creare legami di profondo paternalismo tra lo stato e le comunità Qom le quali, in cambio degli aiuti concessi in materia di salute, devono garantire voti politici e incondizionata fedeltà ai partiti al governo.
Molti sono stati i casi riscontrati durante la ricerca di indigeni chagasici che avevano chiesto e ottenuto un aiuto monetario mensile come pensione di invalidità permanente; una delle conseguenze negative di questo sistema pensionistico statale assistenzialista riguarda il fatto che il chagasico, indipendentemente dallo stadio in cui versa la sua malattia proprio a causa della pensione, verrà disincentivato dal trovare altri mezzi di sostentamento per sopravvivere, restando confinato ai margini di una società laboralmente attiva e produttiva. A El Algarrobal i chagasici che ricevono la pensione non lavorano, indipendentemente dall’età o dallo stadio della malattia, rappresentando un classe sociale emarginata, spesso etichettata negativamente come non produttiva, ricettacolo di problematiche sociali relative a violenza e alcolismo.
L’elargizione della certificazione medica di chagasico cronico e il sistema di pensioni, dietro al buonismo di facciata delle concessioni statali, frena il Qom chagasico nella ricerca di altre forme occupazionali e cronicizza una drammatica stasi, ostacolando il raggiungimento di una piena autonomia economica per molte famiglie indigene.
“Gli indigeni Qom non vogliono lavorare” mi è stato ripetuto spesso in Chaco da persone non Qom: questa frase è emblematica di una situazione molto complessa ed evidenzia le conseguenze ambigue che giacciono sia dietro all’agentività dei Qom, sia dietro alla politica degli aiuti assistenziali elargiti ai chagasici.
4. La Vinchuca abita solo l’adobe?
Una delle questioni maggiormente dibattute a livello accademico è relativa allo stretto legame che pare esistere tra la malattia del Chagas, la Vinchuca e le abitazioni Qom tradizionali, costruite in adobe (fango e paglia), dove la vinchuca sembrerebbe prediliga stanziarsi.
É opinione diffusa pensare che la popolazione indigena sia quella maggiormente colpita dalla patologia perchè abita ancora nelle suddette abitazioni, simbolo di arretratezza economica e luogo dove la vinchuca si annida e prolifera; in Argentina, il nesso causale tra Chagas e le abitazioni in adobe circola tutt’ora incontrastato, motivando l’idea che eliminando le abitazioni in adobe si possa eradicare definitivamente anche la Vinchuca e quindi il Chagas.
Per ridurre il numero di chagasici, soprattutto tra gli indigeni Qom, lo stato argentino avviò in epoca odierna massicce campagne di conversione abitativa, sostituendo progressivamente le case tradizionali in adobe con case in muratura; questi interventi statali, che si pensava potessero essere risolutivi, erano sostenuti da un’ideologia modernista che aveva l’obiettivo di eliminare in un colpo solo l’endemia de Chagas, i segni della povertà e dell’arretratezza economica nelle aree a maggioranza indigena come il Chaco. A El Algarrobal la presenza delle abitazioni in muratura è frutto di queste misure statali, molte delle quali furono richieste o appoggiate dalle stesse organizzazioni politiche indigene, decise a seguire il percorso di modernizzazione già avviato nel resto del paese.
Criticando il semplicistico legame causale posto tra l’adobe e il Chagas, a El Algarrobal si constata che la presenza della Vinchuca nelle abitazioni in mattoni di recente costruzione è tuttora abbondante, ciò a conferma del fatto che non sia sufficiente costruire qualche casa in mattoni per eliminare un endemia.
A dimostrazione di quanto appena affermato, sono le opinioni raccolte durante un gruppo di lavoro coordinato da Gabriel Martin, bio-costruttore con alle spalle un’esperienza decennale sulle tecniche di bio-costruzione in Argentina e in Brasile, e Enrique Delgado, architetto messicano[15]. L’obiettivo dell’esperienza di costruzione comunitaria, in cui sono stati coinvolti anche i Qom, era erigere una piccola abitazione in adobe utilizzando sia tecniche di costruzione e materiali tradizionalmente usati dai Qom, che quelli comunemente adoperati in edilizia.
Nel testo “Minga. Experiencias de construcción comunitaria” , G. Martin (2014) sostiene che la vinchuca non abiti l’adobe in se stesso, ma si stabilisca nelle fessure e nelle piccole crepe dei pavimenti e dei muri, siano questi costruiti in legno, cemento, adobe o qualsiasi altro materiale. Il tipo di materiale non è ciò che spinge la Vinchuca ad annidarsi nelle case, sono invece le modalità con le quali si progettano, si costruiscono e si mantengono nel tempo ad essere fattori determinanti per la presenza o meno di Vincuche e le abitazioni dove più facilmente si annida l’insetto, sono quelle che non vengono costruite con accortezza, che versano in uno stato di degrado, abbandono e insalubrità.
Rispetto alle moderne costruzioni in mattoni, che erroneamente si pensa siano immuni dall’ingresso degli insetti, è possibile costruire abitazioni sicure, solide e salubri anche con tecniche che contemplano l’uso dell’adobe, della paglia, dello sterco animale, della terra pressata. Un’abitazione moderna in adobe, come quella che è stata costruita a El Algarrobal con G. Martin, che sia solida, ben progettata e che venga mantenuta nel tempo in buono stato, può essere una soluzione abitativa economica, ecologia e sostenibile per le popolazioni Qom, che tradizionalmente adoperavano l’adobe per costruire le loro case.
Gli interventi statali volti ad eliminare le abitazioni Qom tradizionali, per sostituirle con quelle in mattoni, dietro alla comune credenza che ciò sia una misura efficace per prevenire il Chagas, nascondono numerose ambiguità e interessi. Il fatto che i Qom abbiano tradizionalmente vissuto in abitazioni in adobe e padroneggino le tecniche di costruzione adeguate all’uso di questi materiali locali, contrasta con la reale possibilità che essi possano mantenere in buono stato case in mattoni e cemento, le cui tecniche di costruzione e manutenzione non sono da essi conosciute. I materiali con cui, a El Algarrobal, vengono costruite le case in mattoni, non essendo reperibili nel paraje, obbligano gli indigeni a dipendere da imprese edili situate nelle città più vicine, che vendono materiali e servizi spesso scadenti a prezzi molto elevati. La povertà economica, di strumenti e mezzi, le difficoltà nei trasporti, l’isolamento e proprio il fatto che queste imprese statali siano gestite da “bianchi” che discriminano i Qom, li disincentiva a reperire materiali e ad apprendere tecniche edilizie basiche necessarie a mantenere in buono stato le abitazioni in mattoni e cemento costruite a El Algarrobal.
A causa di questi fattori, è molto più probabile quindi che le case in muratura, dopo pochi anni dalla loro costruzione, versino in uno stato di trascuratezza e abbandono, che è la condizione privilegiata per lo stabilirsi della vinchuca.
Durante le numerose per dell’Impenetrabile, sono state visitate tutte le famiglie di El Algarrobal che abitavano nelle case in muratura, concesse dallo stato circa cinque anni or sono; l’evidente presenza, sulle pareti delle abitazioni, dei segni lasciati dalle feci del Triatoma, testimoniava che l’insetto ci viveva abbondantemente e stabilmente.
Consapevole che cercare di risolvere il problema della vinchuca sia un fatto complesso, perché sono molti i fattori che occorre tener presente, ritengo que pensare che si possa porre fine al Chagas sostituendo le costruzioni in adobe con quelle in muratura, è frutto di una visione superficiale e semplicistica della questione.
Inoltre il fatto che negli ultimi anni sia stata incentivata la costruzione di abitazioni in mattoni in molti parajes del Chaco, palesa il volto ambiguo degli interventi statali che vogliono ridurre i segni più visibili della povertà e dell’arretratezza indigena, ma che in realtà non affrontano adeguatamente il problema dell’eradicazione del Chagas. Costruire case in muratura è una soluzione d’immagine strategica, che in un ottica di visibilità internazionale, promuove lo stereotipo dell’indio “moderno”, non più chagasico, che lo stato argentino sostiene e aiuta. Ma la realtà è evidentemente un’altra.
Conclusioni
Lo studio mostra alcuni degli eterogenei volti della malattia di Chagas. La patologia è stata indagata in parte nella sua dimensione epidemiologica, ma si è scelto di rendere il quadro più composito; il Chagas è stato un interessante strumento per far luce su alcune complesse questioni culturali, sociali e politiche che da un lato caratterizzano questa malattia, ma dall’altro ne ostacolano l’effettiva eradicazione in molte zone dell’America Latina, tra le quali il Chaco indigeno argentino.
Attorno al Chagas si intersecano il sapere medico e quello politico; il bio-potere si diffonde in tutti gli ambiti del sapere che riguardano la gestione della bios e del corpo e la medicina è il terreno in cui la sua decisionalità meglio si esplica. Nell’ambito delicato e ambiguo della cura medica, si compiono scelte politiche inclusive o esclusive, volte a riservare ad alcuni gruppi umani un accesso privilegiato alla cura di determinate malattie, escludendone altri.
L’opacità dei discorsi sul Chagas formulati dai medici a El Algarrobal, il difficile accesso al sistema di diagnosi e cura del Chagas, l’etichetta di Chagas cronico, il definire il Chagas un male indigeno, l’attuare politiche pensionistiche di assistenzialismo strategico, sono tutti meccanismi attraverso cui nell’ambito sanitario si attuano politiche velatamente discriminatorie nei confronti delle popolazioni Qom, che non avendo facile accesso all’educazione e vivendo nella scarsità di risorse, restano la culla di propagazione della patologia e luoghi dove meglio fanno presa stereotipi e ambigui giochi politici.
La violenza simbolica a El Algarrobal converge con quella strutturale. Tra i Qom stessi c’è molta confusione su cosa sia il Chagas, come sia possibile riconoscerlo, diagnosticarlo e curarlo, se la cura sia disponibile o meno e se sia efficace; l’assenza di strutture sanitarie adeguate e di personale medico ben preparato e scrupoloso nella gestione del Chagas, fanno si che la gravità della patologia spesso venga sottovalutata e minimizzata, contribuendo ad innalzare il numero dei contagi.
Nelle interviste raccolte è stato confermato che il più delle volte erano i medici che facevano visita alle comunità indigene, a proporre definizioni poco precise del Chagas, che contribuivano a rafforzare stereotipi e malinterpretazioni sull’infermità, definita un male indigeno, cronico e incurabile in tutte le sue fasi cliniche.
La confusione espressa nei discorsi medici e i cortocircuiti interpretativi sul Chagas, non sono casuali e hanno ricadute evidenti nella realtà della cura. La maggior parte dei Qom di El Algarrobal macchiati frettolosamente con lo stigma di chagasici cronici, vengono estromessi, marginalizzati e condannati al destino di malati incurabili, a cui non viene riconosciuto il diritto di essere curati perché non ciò che non viene riconosciuta è a loro piena umanità. Per questi e altri motivi continuano ad essere le vittime più colpite dal Chagas.
Le conseguenze della violenza strutturale e simbolica sono ben visibili per alcuni gruppi umani, in ambito medico il fatto che i Qom non possano accedere ad un sistema sanitario disponibile, attento ed efficiente, coincide con una limitazione della loro capacitazione e un maggior grado di sofferenza sociale. Che una parte della popolazione indigena continui a perire di Chagas da un lato serve allo stato argentino per permette la sopravvivenza della sua idea egemonica di stato nazione, dall’altro il Chagas serve ai Qom per richiedere le pensioni e non morire di fame, questa è la mia personale interpretazione dell’ambigua frase ripetuta da un informatore Qom: “no, non vi mettete contro la vinchuca, perché della vinchuca viviamo, che possa andare avanti a pungere”.
Questa affermazione rimanda ancora una volta alla complessità dell’ambito tematico affrontato, dove malattia, politica e cultura si intrecciano e dove l’eradicazione del morbo potrà essere promossa solo qualora lo stato argentino vorrà farsi carico in maniera efficiente e costante di quella parte di popolazione indigena che spesso e a periodi alterni è stata confinata ai margini, esclusa, non ascoltata o utilizzata per perseguire ambigue finalità bio-politiche. La trattazione vuole essere un tentativo di restituire al lettore parte di questa complessità, con la speranza che anche grazie al contributo antropologico, questa patologia dimenticata possa ricevere una rinnovata attenzione delle scienze mediche e sociali, aprendo nuovi dibattiti anche in Europa, per trovare inedite soluzioni di gestione e di cura.
Note
[1] “Qui tutti i Qom hanno il Mal di Chagas. Anche io e i miei figli forse siamo malati”, traduzione mia.
[2] “Non c’è cura per il Chagas. La gente di Chagas muore. All’inizio non ci si accorge, però pian piano ti stanca il corpo, ti attacca il cuore e all’improvviso ti ammazza”. Le traduzioni dallo spagnolo riportante nel testo, se non diversdamente indicato, sono mie.
[3] “Però tu no. I banchi non hanno il Chagas”.
[4] L’Impenetrabile è situato nella zona argentina del Chaco. La regione conosciuta come il Gran Chaco, costituisce un’area territoriale molto estesa, la cui dimensione si aggira attorno ai 1.200.000 km². Questo territorio comprende la parte sud-est del Brasile, l’ovest del Paraguay, la zona est della Bolivia e l’area settentrionale dell’Argentina.
[5] “Una malattia dei Qom”
[6] “Malattia dei poveri e della povertà”
[7] WORLD HEALTH ORGANIZATION (2010), Chagas disease (American trypanosomiasis). Fact sheet N°340, Geneva.
[8] In tutte le 50 famiglie che risiedono a El Algarrobal, molte delle quali sono composte da 7-8 soggetti, più della metà dei membri dichiara di essere chagasico.
[9] Il Trypanosoma cruzi è un protozoo parassita del genere Trypanosoma, portatore di infezioni e malattie, in particolare la malattia di Chagas.
[10] Mi riferisco a quanto detto in precedenza riguardo al fatto che la sintomatologia del Chagas può facilmente essere confusa con quella di una semplice influenza.
[11] Termine molto usato in America Latina che rappresenta la figura moderna dello sciamano.
[12] “Perché dovrei aver paura del Mal di Chagas?”. Traduzione mia.
[13] Mi riferisco al senso che del termine denso da Glifford Geetz in “Interpretazioni di culture”, 1973: Geetz propone il metodo della thick description dove risiede l’oggetto dell’etnografia e l’ermeneutica di Geerz il quale vuole restituirci i fenomeni sociali nella loro complessità originaria, come una “gerarchia stratificata di strutture significative” nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati i fenomeni sociali, cercando di non imbattersi in riduttive semplificazioni.
[14] Evidente è il parallelismo tra Chagas nel Chaco e AIDS presente in altri contesti geografici, malattie, entrambe, accompagnate da una forte stigmatizzazione sociale.
[15] Entrambi i soggetti citati hanno vissuto con me ad El Algarrobal durante il periodo della ricerca.
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